Il pieno e il vuoto: Taiji e psicoterapia

Ho letto con molta curiosità la dispensina che ci avete distribuito al seminario del monte Penice. Ė stata confezionata con cura. E non mi riferisco tanto alla carpetta rosa che la conteneva. Che pure ho molto apprezzato come segno di attenzione per il destinatario. Alludo piuttosto al suo contenuto, che avete saputo selezionare con grande efficacia, pescando nel mare magno della filosofia del TAIJIQUAN.

Il seminario era incentrato sul concetto di pieno e vuoto, ovvero di yin e yang e del loro continuo trasformarsi. Sono una neofita del TAIJI. Dunque mi accosto per la prima volta a questo universo e alla sua simbologia. Leggendo quelle pagine, però, non ho potuto fare a meno di pensare che c’è un filo rosso che unisce il TAIJI ai fondamenti della psicoterapia. Sono psicoterapeuta. E la cosa che non finisce mai di sorprendermi nel mio lavoro è che, possono cambiare le latitudini, le epoche storiche, le civiltà, ma i bisogni dell’uomo rimangono sempre gli stessi.

Così mi è venuta voglia di tentare un’impresa ardita. Ho provato a confrontare il linguaggio del TAIJI con quello della psicoterapia. Scoprendo che hanno molti punti di sovrapposizione. E se avete voglia, ve ne propongo qualcuno. Un po’ a ruota libera.

Leggo: …I saggi antichi capirono che tutto nell’universo è in perenne mutazione, nulla è permanente tranne la mutazione stessa…

Ė l’annoso tema del cambiamento. La biologia ci insegna che la vita è evoluzione. E certamente l’evoluzione non è sempre sinonimo di miglioramento. Penso ad esempio alle grandi estinzioni del passato. Ma come dire, le estinzioni sono un rischio da mettere in conto. Vanno lette come dei tentativi di adattamento all’ambiente andati a buca. Ma pur sempre dei tentativi. Non solo. Il cambiamento interferisce pesantemente anche con la vita psichica. Perché essere in cammino, essere alla ricerca del proprio ben-essere è sinonimo di salute. Anche se la strada è lunga e faticosa. Soprattutto perché il benessere non viene conquistato una volta per tutte. Ma va continuamente difeso e riguadagnato. La stagnazione invece è patologica. Ė quella che i terapeuti definiscono in gergo “resistenza al cambiamento”. Che vuol dire irrigidimento, paura del nuovo, paura di non avere tutto sotto controllo sempre. Permettendo al caso di fare la sua parte. Di rimescolare un po’ le carte. L’ignoto può essere fonte di pericolo ma anche di novità. Spesso i pazienti rimangono ancorati alle loro abitudini stereotipate, che riconoscono inadeguate e fonte di sofferenza, ma che hanno il pregio di essere rassicuranti.

 Ancora …Si impasta l’argilla per fare un vaso e nel suo vuoto interno si ha l’utilità del vaso, si aprono porte e finestre per fare una casa e nel suo vuoto interno si ha l’utilità della casa…

Queste parole mi fanno pensare al fatto che oggi la dialettica pieno-vuoto ha soppiantato la dialettica mancanza-desiderio. Molto più salutare per la vita psichica. Infatti a causa di un diffuso quanto radicato fraintendimento, la mancanza viene vissuta come un vuoto da riempire. Con dei pesanti strascichi. Perché, se la mancanza è la condizione del desiderio, il troppo pieno lo rende asfittico. Mortificando la creatività e la progettualità che dal desiderio prendono le mosse. Pensate ad esempio a come sono organizzati oggi i pomeriggi di molti bambini e adolescenti. Prevedono una fitta serie di impegni in successione frenetica. Dal catechismo al corso di chitarra, dalle ripetizioni di matematica al calcio. E via di questo passo. Non è minimamente contemplata la possibilità che possano annoiarsi un poco. Mi riferisco a quella sana noia che mette in moto l’immaginazione, che fa pensare a cosa ci piacerebbe fare, per decidere eventualmente di farlo. Non solo. All’interno della logica pieno-vuoto, possiamo leggere le dipendenze come patologie del vuoto. Assumere droga, mangiare a dismisura, essere ossessionati dalla cura del corpo, essere malati di lavoro, di computer o di gioco d’azzardo possono essere visti come modi per tollerare l’inquietudine che nasce dalla mancanza. Perché partner inumani come la bottiglia, la droga, il cibo, il computer, l’immagine del corpo, il lavoro ci sono a comando, danno piacere e garantiscono quelle certezze che la relazione con partner umani non garantisce. Preservano illusoriamente dalle perturbazioni dell’amore…

Senza il confronto con gli altri, come con i tui shou, non possiamo sapere se le forze che stiamo applicando sono corrette e se la postura è corretta…

I tui shou mi fanno pensare alla relazione. In particolare, ai debutti che gli adolescenti fanno in società nei campi più disparati. Nell’amicizia, nell’amore di coppia, nella vita di gruppo, dopo aver abbandonato le rassicuranti pareti domestiche. Prove generali della vita. Incessanti collaudi, che alla lunga dovrebbero tradursi in una maggiore competenza nei rapporti umani. Ė il misurarsi con l’altro, che ti fa da specchio, comunicandoti come appari ai suoi occhi. Che può rimandarti un’immagine che coincide con l’immagine che tu hai di te stesso. Oppure rimandartene una abissalmente diversa, con cui devi fare i conti. Questo ci aiuta a prendere le misure dei nostri comportamenti, a valutarne l’impatto emotivo sugli altri. Che spesso ci riservano uno sguardo impietoso, perché non coinvolti affettivamente come può esserlo un familiare. Ma questo, anche se è doloroso, aiuta a crescere. Stare in relazione con l’altro vuol dire imparare ad ascoltarlo, provare a sentire cosa ci comunica. Fino a sviluppare quella preziosa capacità relazionale, l’empatia, che è il mettersi nei panni degli altri pur rimanendo se stessi. Presupposto per non guardare in cagnesco il diverso.

I tui shou mi ricordano l’annusarsi dei cani che non si conoscono. Pratica diffusa anche tra gli umani, seppure, per fortuna, con modalità diverse, ogni qual volta si trovano alle prese con uno sconosciuto.

Quelli che in antico eccellevano come adepti del Tao penetravano l’arcano e comunicavano col mistero, erano tanto profondi da non poter essere compresi…

Gli adepti del Tao che penetrano l’arcano hanno rievocato in me la questione del mistero e dell’assurdo. Le persone si pongono di fronte alla vita in maniera molto diversa, a seconda che la considerino un mistero piuttosto che un assurdo. Nel primo caso riconoscono che abbia un senso, seppure imperscrutabile. Vengono a patti con il senso del limite, accettando che vita e morte siano indipendenti dalla loro volontà. Ma proprio per questo ne subiscono il fascino. E si godono la vita senza sciuparne un solo istante. Nel secondo caso, invece, l’aspetto di caducità prende il sopravvento. E la domanda tanto cruciale quanto paralizzante diventa: a che serve vivere se…? Faticano ad accettare che vita e morte facciano parte di un unico progetto, perché le vivono come una contraddizione in termini. O un grande imbroglio.



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