La violenza e il calcio: riflessioni dalla lettura di “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio” di Alessandro Dal Lago

Il calcio non sarà lo sport più bello del mondo, come sostengono con comprensibile narcisismo gli addetti ai lavori, ma è sicuramente quello che ha sviluppato più capacità mitopoietiche. Lo dimostrano le chiacchiere da “bar sport”, la propensione di molti scrittori a raccontare storie di pallone o a interpretare il mondo in chiave calcistica. Con buona pace degli intenti pedagogici di certi intellettuali snob, secondo cui le masse non dovrebbero svagarsi in modo così volgare, ma dedicarsi a questioni di ben altro spessore. Gli stessi che leggono la violenza negli stadi come la logica conseguenza di un’ottusa passione per uno sport di basso rango, il calcio, responsabile in qualche modo di un progressivo imbarbarimento della vita sociale. Di calcio ha parlato lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, ex centravanti di talento del Boca che, attraverso le avventure leggendarie di eroi calcistici d’altri tempi, racconta la malinconia argentina, i conflitti del peronismo, l’epopea di Gardel, la ferocia dei dittatori argentini. Albert Camus, che vedeva in una partita di calcio l’avverarsi di un destino irreversibile, del fato. Come è fatidica una partita di calcio. Sartre, che considerava la squadra come una mirabile sintesi di creatività individuale e cooperazione. Sembra non esistere soluzione di continuità tra alcune pagine letterarie e filosofiche e le conversazioni, per banali che siano, degli appassionati di calcio; e i cori, seppure trucidi e goliardici, degli ultra. Paradossalmente contengono la stessa disponibilità all’iperbole e alla dilatazione leggendaria. Ma perché il calcio è lo sport letterario per eccellenza? Forse perché riassume in sé le metafore fondamentali della vita sociale: la giustizia, la partecipazione, la visibilità e l’esibizione di sé, il fato.
Il calcio, per sua natura, è la rappresentazione rituale di un conflitto di tipo bellico ( il conflitto è tra squadre avversarie, tifoserie avversarie, e tra arbitro-giocatori e arbitro-pubblico in certe particolari situazioni di gioco). Perché ci sono due squadre che si affrontano in un grande spazio recintato, che attira migliaia e migliaia di spettatori, che pretendono di dire la loro sull’andamento del gioco. Questo non è previsto da nessun regolamento calcistico, ma è una norma praticata in tutti gli stadi, a differenza di quanto accade negli altri sport. La metafora dominante nel calcio è la divisione amico/nemico, che è una variante di quella bellica. La stessa terminologia tecnica e il linguaggio gergale, adottati sia dagli ultra che dagli addetti ai lavori a vario titolo, sono di tipo militare (difesa, attacco, tattica, strategia, inseguire, bomba, cannonata, abbattere l’avversario, caccia al pallone ecc…) Insomma l’atmosfera che circonda il calcio trasuda di elementi conflittuali quando non addirittura bellici: squadre avversarie, tifoserie avversarie, forze dell’ordine che le tengono a bada. Lo stadio fa da cornice a dei rituali, tra cui quelli del tifo. Con la sua particolare architettura si differenzia dall’ambiente urbano circostante. Rappresenta una realtà nella realtà, in cui sono parlati linguaggi diversi, sia verbali che non verbali. In cui valgono regole diverse, spesso tacite, a cui si conformano tutti gli attori presenti. Indipendentemente dall’estrazione sociale, dal livello culturale, dalle scelte politiche. Le forze dell’ordine, ad esempio, hanno il compito di tenere separate le tifoserie organizzate avversarie. Solo eccezionalmente intervengono dentro la curva dei tifosi di casa, riconoscendo implicitamente la pretesa di controllo del territorio da parte loro. Quando si varcano i cancelli dello stadio si indossa un’identità calcistica da rossoneri, granata ecc.., che va a sommarsi all’identità personale. Ė come se lo stadio fosse avvolto da un’invisibile membrana che lascia entrare vari attori sociali, riplasmandoli secondo le esigenze dello spazio simbolico che definisce. Oltrepassando la membrana invisibile si assume un abito mentale, cognitivo e morale diverso. Che porta un tranquillo padre di famiglia a inveire contro l’arbitro, ad abbracciare un perfetto estraneo, quale il vicino di posto, se la squadra per cui tifano segna goal, ad unirsi alla ola ecc.. Talvolta capita che le provocazioni metaforiche delle tifoserie organizzate non vengano comprese dal pubblico generico e così la violenza verbale può trascendere in violenza reale. Va sempre ricordato che la violenza è frutto di un processo che vede interagire vari attori sociali in un determinato contesto. C’è poi un’altra questione fondamentale. Il gioco del calcio è fatto di regole costitutive che ne permettono l’esistenza (nessun giocatore, tranne il portiere, deve toccare la palla con la mano ad esempio) e di regole pratiche che ne permettono lo svolgimento (i falli vanno puniti, tanto più se intenzionali). Queste ultime sono soggette ad interpretazione. L’unica autorità legittimata a farlo e dunque a prendere decisioni inappellabili e irrevocabili, che determinano irreversibilmente il risultato di una partita, è l’arbitro. Ciò è reso ancor più drammatico dalla scarsezza del punteggio. Ma l’imparzialità implicita legata alla figura dell’arbitro non sempre è condivisa dagli spettatori. D’altra parte l’interpretazione difficilmente può prescindere da elementi di soggettività. E quella famosa membrana invisibile di cui si diceva serve anche a delimitare uno spazio in cui viene messo in scena un tipo particolare di giustizia. Tra le norme non scritte ma praticate in uno stadio c’è la contestazione delle decisioni arbitrali da parte del pubblico. Questa è una costante, e fa parte della struttura di una partita di calcio. Ciò non accade in altri contesti della vita reale. Ad esempio, se in un’aula di tribunale il pubblico contesta, viene allontanato e l’udienza procede a porte chiuse. All’interno del campo di calcio è come se esistessero due cornici: quella che delimita il campo e ciò che vi accade e quella che delimita il pubblico. In ogni partita la relazione tra le due è critica e può sfociare in violenza. A maggior ragione se la squadra “danneggiata” sta perdendo in casa, se ha già subito presunti torti nella stessa partita, se la sua situazione di classifica è precaria, oppure se è in pareggio fino a pochi minuti dalla fine e poi subisce un rigore. Ė molto improbabile la tesi secondo cui vi è una correlazione diretta tra la violenza in campo e la violenza sugli spalti. Esistono sport ben più violenti del calcio, come la boxe ad esempio, che non eccitano per niente la violenza del pubblico.
Verso la metà degli anni ‘80 nasce il fenomeno degli ultra, proprio quando il lungo sessantotto italiano era finito, le scuole e le università sonnecchiavano, gli studenti sembravano essersi pacificati. Il fenomeno “ultra” si caratterizza come un insieme di veri e propri movimenti giovanili basati sul sostegno della propria squadra. Alcuni politicizzati, altri no, che contano migliaia di aderenti e decine di migliaia di simpatizzanti. La cui militanza è limitata nel tempo: dai 14 ai 20 anni circa. Il cui nome si ispira ai movimenti estremisti e/o clandestini degli anni ’70. Che hanno colonizzato degli spazi, le curve, la cui condivisione rafforza il loro senso di identità e di appartenenza. Che hanno dato forma estetica al tifo, per celebrare la rappresentazione rituale amico/ nemico. Il complesso repertorio di slogan, canti e coreografie che mettono in scena la domenica allo stadio acquista senso solo all’interno di un’opposizione simbolica, limitata alle partite di calcio, all’interno di una cultura totalmente condivisa dalle altre tifoserie. Cultura secondo la quale, ad esempio, gli insulti rituali di tipo discriminatorio o razzista sono al di fuori di ogni referente politico. Inoltre non vanno allo stadio solo per soddisfa fare un bisogno estetico, cioè quello di veder giocare bene la propria squadra, ma soprattutto per vederla vincere. C’è infatti una totale identificazione tra i tifosi in generale e in particolare gli ultrà e la squadra per cui tifano. Il credo è: se vince la squadra per cui tifo, vinco io stesso. Io sono la mia squadra. Per questo sostengo i giocatori in campo, infastidisco gli avversari col rumore, insulto l’arbitro e, in caso di evidente ingiustizia, gli do la caccia invadendo il campo. I nemici della mia squadra sono miei nemici. Per questo mi scontro coi tifosi nemici. Raramente sugli spalti, stante lo spiegamento impressionante di forze dell’ordine, dove lo scontro sarebbe ancora nell’ordine del simbolico. Più frequentemente invece in prossimità dello stadio, delle stazioni ferroviarie e del metrò, che rappresentano delle propaggini della curva. E soprattutto senza godere della cornice simbolica e dunque protettiva dello stadio. Ė qui che la rappresentazione del conflitto sempre più frequentemente degenera in conflitto. All’interno degli stadi gli scontri coi nemici sono regolamentati da un vero e proprio “codice del disordine”. All’esterno no. Controllare la curva ha risvolti economici (vedi i biglietti ceduti alle tifoserie dalle società) e politici consistenti. Significa disporre di una grande massa di manovra in grado di influenzare le scelte delle società calcistiche. I disordini sono spesso un modo di protestare per la situazione in classifica di una certa squadra. Per esprimere contestazioni tecniche ai dirigenti. Le società sono ricattabili da questo punto di vista, perché in caso di disordini la responsabilità oggettiva ricade su di loro. Responsabilità che pagano con multe pesanti e/o squalifica del campo.
Che la violenza abbia da sempre accompagnato il gioco del calcio, seppure con diverse intensità e modalità, lo testimoniano i fatti di cronaca. Si narra che negli anni ‘30 gli arbitri venissero inseguiti da tifosi armati di pistola. Che negli anni ’50 città come Legnano e Catania insorgessero contro la retrocessione. Che negli anni ’60 e ’70 ci siano stati numerosi scontri tra tifosi. Questo non significa minimizzare la portata del fenomeno, ma inquadrarlo nelle giuste dimensioni e proporzioni. Tenendo conto che spesso si confonde il fenomeno in sé, cioè la violenza, con la percezione che se ne ha. Percezione indubbiamente amplificata dai media. Per la struttura stessa del gioco, ogni domenica migliaia di persone trovano nel calcio l’occasione per manifestare la loro emotività. Peccato che il contesto vorrebbe il calcio una semplice attività ricreativa, depurata da ogni emotività, un po’ sterilizzata. Lo testimonia l’evoluzione delle norme arbitrali. Esse non mirano all’eliminazione della violenza o della pericolosità fisica del gioco, ma al controllo delle buone maniere. Mi spiego meglio. Un fallo pericoloso ma involontario viene tollerato come evento fatale, imprevedibile. E si sa che la fatalità è il sale del gioco. Mentre un fallo di reazione, anche se innocuo, viene punito duramente. Le intemperanze, che si verificano nella quotidianità, non sono ammesse. Dunque, secondo questa linea di tendenza, i giocatori dovrebbero essere delle macchine sportive, capaci di prestazioni tecniche e di autocontrollo. Anche la stampa sportiva si accosta alla questione emotività con estrema ambivalenza. Da un lato la vorrebbe estranea al gioco, dall’altra la tratta con un’attenzione morale esagerata. Fatti irrisori, se visti nella prospettiva della vita quotidiana, come un battibecco tra calciatori, assurgono a notizia di cronaca, se visti in una situazione sportiva che si vorrebbe asettica.
Un’altra questione molto dibattuta è cosa rappresenta il calcio oggi Il calcio è divenuto un “fatto sociale totale”. Cioè è un precipitato di investimenti economici, sociali, emotivi e politici di massa. E l’emotività cresce in funzione di tutte queste implicazioni. Il calcio dà lustro e visibilità sociale a chi lo pratica e a chi lo dirige. E di conseguenza tifare per una squadra o per un giocatore importanti significa aver accesso al mondo patinato di chi conta davvero. Anche solo con la fantasia. Attorno a una partita di calcio si organizzano eventi (musicali e di varietà). Vincere il campionato spesso ha significato il riscatto sociale di una città (vedi il Napoli o la Reggina) I calciatori della nazionale quando vincono vengono insigniti di onorificenze pubbliche dal capo dello stato. Le stesse vittorie della nazionale italiana degli anni ’30 furono un importante strumento di propaganda politica durante il fascismo. Per tutte queste ragioni, oggi, a differenza di quanto accadeva alcune decine di anni fa, assistere ad una partita dal vivo vuol dire assistere ad un evento eccezionale. Vuol dire disporre di un’ occasione straordinaria per essere visti, di una ribalta per apparire. Pensare che uno striscione sia visibile in tutto lo stadio e addirittura in televisione, che un coro o uno slogan divenga popolare al punto da essere adottato da tifosi di altre squadre dà prestigio. E la questione della visibilità non riguarda solo i tifosi violenti. La partita è un’occasione imperdibile di creare uno spettacolo (cori, canti, coreografie) nello spettacolo (partita) per celebrare l’evento (partita). Un’occasione imperdibile per esibirsi, per apparire e per soddisfare una fame di riti, che la dice lunga sulla noia della vita quotidiana. E tutto questo ha a che vedere con l’emotività.
Oggi, per tutta una serie di ragioni, il calcio sta mutando volto. Non sta morendo, come sostengono i nostalgici, ma si sta trasformando in un qualcos’altro. Le società di calcio sono diventate delle imprese commerciali che sfruttano una passione di massa. La presenza invasiva della televisione ne ha fatto un business, con conseguente modificazione della struttura organizzativa del gioco. Le squadre infatti realizzano enormi profitti con la vendita dei diritti televisivi. A maggior ragione ora che la liberalizzazione del mercato ha comportato una concorrenza spietata tra le reti. Da qui il moltiplicarsi delle partite, che sono occasioni di profitto. Per cui le squadre si sono viste costrette a dotarsi di un organico in grado di reggere un surplus di carico agonistico, investendo cifre stratosferiche nell’acquisto di giocatori di fama. Il cui ingaggio è aumentato in maniera esponenziale, secondo la legge della domanda e dell’offerta. E l’inevitabile indebitamento che ne consegue ingenera la spirale perversa: aumento degli ingaggi- indebitamento- vendita dei diritti televisivi. I telespettatori, dal canto loro, sono nauseati dal bombardamento quotidiano di partite. Ma non solo. La mediatizzazione ha comportato anche una profonda revisione delle logiche di allenamento e tattica. Viene data la priorità alla forza, alla velocità, alle qualità fisiche dei giocatori più che a quelle tecniche. Al gioco meccanico ed atleticamente esasperato. E la lentezza, che permetteva l’esistenza dei ruoli di “suggeritore”, “rifinitore”, mal si concilia con la concezione della squadra come rullo compressore. Come dire che il funambolismo calcistico è destinato a sparire. Oggi le squadre sono macchine sotto stress, con un turnover di giocatori e allenatori molto più rapido. Dunque il calcio non è più solo passione, chiacchiera sportiva, folklore, ma è diventato soprattutto risorsa televisiva, stampa specializzata, azzardo legalizzato e non, speculazione finanziaria, come le quotazioni in borsa e il bagarinaggio.
I tam tam mediatico fa da detonatore al bisogno di visibilità insito in ciascuno, spesso con esiti disastrosi. Il problema non è eliminare l’emotività dal gioco, cosa peraltro impossibile, ma dare più ascolto e attenzione ai giovani in generale e in particolare a quelli che non hanno gli strumenti per chiederlo.

Bibliografia
Alessandro Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Il mulino 2001



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