L’invenzione della neve di Vittorio Moroni

È una storia toccante e cruda quella che ci narra il regista. Una delle tante, per chi opera nei Centri per bambini maltrattati. La vicenda si dipana da un quesito centrale, per poi esplodere in tutta la sua virulenza. Meglio allontanare un minore da una madre del tutto inadeguata o affiancare alla stessa operatori qualificati? Pur optando per la seconda ipotesi – ho personalmente avuto modo di apprezzarne la professionalità e l’abnegazione – concordo col regista sul fatto che la questione, così posta, risulti semplicistica. Perché non tiene conto delle differenze individuali, che giocano un ruolo fondamentale nelle scelte di vita. Infatti c’è chi nel tempo riesce ad addomesticare la propria rabbia, ritagliandosi uno scampolo di precaria normalità. E chi proprio non ci riesce, perché certe ferite gli rimangono cucite addosso, trasformandolo in un randagio costantemente in bilico sull’orlo del baratro. Le bugie ripetute, il rancore vomitato a fiotti, l’inaffidabilità sono il corredo con cui si muove nel mondo. Ha solo bisogno di amore, ma lo chiede in maniera goffa e respingente. Che è l’unica che conosce. E che inevitabilmente esita nell’emarginazione.

Che fa allora se il mondo è sordo alle ripetute richieste d’aiuto? Emerge un’ultima volta dal suo abisso di disperazione, per punirlo con lucida e implacabile determinazione. Senza lasciare tracce né far rumore. Proprio come accade alle falde di neve, che cadono una sull’altra nel silenzio più ovattato.



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