Orlando. My political biography di Paul B. Preciado

Qualche cenno storico. Einar Vegener, al secolo Lili Elbe, è un’artista danese nota per essere stata la prima o la seconda persona ad essersi sottoposta, nel 1930, ad un intervento chirurgico per la riassegnazione del sesso. Che le costò la vita. Più o meno in quegli stessi anni, la tormentata Virginia Woolf scrive il celebre romanzo “Orlando”, biografia visionaria di una creatura androgina, la cui vita si snoda lungo l’arco di tre secoli, con la particolarità che, dopo un lungo sonno, si sveglia donna. Nonostante il tono talvolta farsesco, si tratta di un’analisi psicologica lucida, acuta e soprattutto ante litteram del tema della disforia di genere. Per usare il freddo linguaggio psichiatrico. Ora, se è pur vero che nell’ultima versione del DSM V, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, si evita di definirlo disturbo, per concentrarsi maggiormente sulla sofferenza che comporta alle persone che ne sono portatrici, molto rimane ancora da fare sul piano fattuale. Tant’è che il filosofo, attivista e regista trans, Paul B. Preciado, in questo lungometraggio, con l’aiuto di venticinque attori non binari e trans di età compresa tra i dieci e gli ottant’anni, scrive un’immaginaria lettera a Virginia Woolf, raccontandole le vite complesse e spesso dolorose di tanti Orlando. La cui esistenza la Woolf aveva preconizzato nel suo romanzo. Non si tratta di aristocratici annoiati e anche un tantino depravati. Ma di persone in carne ed ossa. Ne emerge un manifesto corale di storie diverse tra loro, accomunate da alcuni passaggi obbligati. Tipo il sentirsi trattate spesso come carne da macello dalla psichiatria, perché serve una diagnosi psichiatrica per poter accedere alla somministrazione di ormoni. L’essere vittime di una burocrazia spietata, che non contempla l’esistenza di una terra di mezzo in cui sostare. Per cui banalmente non dispongono di un documento di identità che consenta loro di pernottare in un albergo che non sia sordido o di viaggiare.

Il film diventa un manifesto politico nel momento in cui sceglie di considerare la vita non una concatenazione di eventi quanto piuttosto una continua metamorfosi. Modalità spiazzante ed inclusiva al tempo stesso. Che dà visibilità a milioni di persone. E che ha la forza di trasformare in un impercettibile rumore di fondo il vociare sguaiato sulla cosiddetta “teoria gender. Ora, che l’opinione pubblica sia spaccata su queste tematiche non mi sorprende, perché esse scardinano tabù ancestrali, smuovendo fantasmi e alimentando paure ataviche. Credo, però, che tutto ciò che si fregi della definizione di “umano” sia di una complessità irriducibile alla pura dialettica degli opposti. Natura-cultura, ad esempio, sono un’antinomia o un garbuglio inestricabile? – come sembra suggerire l’esistenza di persone che, dalla più tenera infanzia, si sentono scherzi della natura. La loro identità psicologica, infatti, non corrisponde al genere di appartenenza, quello decretato da una coppia di cromosomi. Mi chiedo inoltre se abbia senso interrogarsi su cosa non abbia funzionato in loro, scomodando pseudo patologie, padri severi, madri generalesse. E soprattutto se sia utile a chi, ferocemente ingabbiato in un corpo che sente estraneo, preferisce sottoporsi a numerosi e dolorosi interventi chirurgici piuttosto che arrendersi alla morte psichica. Forse ha più senso aiutare costoro ad affrontare le proprie contraddizioni interne, come la scissione soma – psiche. E fare dono agli scettici di poche e fondate certezze: che i transgender non incarnano l’imbarbarimento dei costumi, non cambiano se si reprimono fortemente, non sono dei perversi affetti da pulsioni distruttive, ma solo persone. Ricordiamoci che a costituire l’identità personale concorrono sia l’immagine che ciascuno ha di sé che l’immagine che gli altri hanno di noi. Quando le due non sono congruenti si soffre e molto. Tentare una pacificazione interna diventando come gli altri ci desiderano, conduce inevitabilmente allo smarrimento del senso di sé. Con straniamento, inautenticità, marcata sensazione di recitare una parte assegnataci da altri.



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