
05 Gen “Santiago, Italia” di Nanni Moretti
Vado in giro, faccio cose, vedo gente. A quarant’anni di distanza da Ecce bombo, film cult della generazione di cui viene rappresentato in chiave caricaturale lo smarrimento, Nanni Moretti si cimenta con un cine-documentario sulla ricostruzione dell’ascesa al potere di Augusto Pinochet nel Cile degli anni Settanta. Vicenda, quest’ultima, che non si presta all’ironia. Neanche a quella garbata e sottile cui il regista ci ha abituati. Perché ripercorrendola, ci lascia attoniti, muti, smarriti.
La prima inquadratura vede Moretti che, volgendo le spalle allo spettatore, contempla a distanza la città di Santiago, racchiusa da una chiostra imponente di montagne innevate, in una livida giornata invernale. Forse una metafora – come ha fatto notare un critico – della distanza necessaria a non farsi travolgere dalle passioni, quando si vuole fare chiarezza su una vicenda. Il regista comparirà un’altra volta nel film. Per prendere posizione. Infatti all’ex militare che sta rilasciando la propria intervista convinto di avere un interlocutore super partes fa sapere, attraverso il traduttore, che lui è di parte. Eccome. Guarda caso, l’intervista si interrompe all’istante. Che un militare si schermisca sostenendo che torture e altre atrocità fossero episodi isolati di cui peraltro non era a conoscenza; e che anche oggi, a distanza di tempo, lo sfiori il dubbio se non proprio il rimorso, cos’è se non negazionismo? La nostra responsabilità di persone – sembra suggerirci il regista – consiste nell’ascoltare le voci disarmoniche necessarie alla ricomposizione dei fatti e soprattutto delle precondizioni che li hanno resi possibili. Come testimone da passare alle generazioni future.
A proposito di negazionismo, ricordo che anni fa avevo scambiato due parole con una famiglia di imprenditori italiani emigrati in Argentina e ritornati in Italia in fretta e furia dopo la caduta di Jorge Videla. I quali, al mio genuino e ingenuo desiderio di avere un loro parere sulle atrocità della dittatura, mi hanno risposto che è stata tutta una montatura della stampa. Per la verità a rispondermi è stato il capofamiglia. Le donne osservavano la regola del silenzio. La vera tragedia è il ripetersi del balletto delle corresponsabilità, seppur con gradazioni diverse, che vanno dal girare la faccia dall’altra parte, all’essere collaborazionista o peggio ancora parte attiva di un crimine.
In Santiago, Italia Moretti ricostruisce l’epoca dei fatti attraverso la testimonianza diretta di giornalisti, artisti, registi, diplomatici, avvocati, operai, insegnanti, militari che, all’epoca, erano giovani uomini e donne. Taluni poco più che adolescenti. La maggior parte di costoro si è salvata trovando rifugio in maniera rocambolesca nella sede dell’ambasciata italiana di Santiago. L’unica che sino alla fine ha continuato a rimanere aperta e ad accogliere esuli, nonostante non avesse precise direttive dal nostro ministero degli Esteri.
Con un certo disappunto ho constatato che una parte della critica si è lanciata in parallelismi un po’ frusti tra l’accoglienza di cui era capace l’Italia degli anni Settanta rispetto a quella attuale. Non so se questo fosse l’intento di Moretti. Personalmente non condivido questa impostazione per due ragioni. Trovo le due situazioni storiche profondamente diverse e dunque poco confrontabili tra loro. Banalmente per il numero di esuli coinvolti. Ritengo inoltre che la reiterata contrapposizione buoni – cattivi rischi di oscurare tutte quelle realtà seriamente impegnate nella difesa degli ultimi. Ricordo anche che negli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Italia ha dato un contributo fondamentale nella stesura della dichiarazione universale dei diritti umani adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La difesa dei diritti umani è impressa a fuoco nel nostro DNA. L’Italia migliore si è impegnata e si impegna quotidianamente per evitare che episodi funesti come la promulgazione delle leggi razziali possano ripetersi.
Ritornando al film, uno degli intervistati racconta che è arrivato in Italia senza nulla. Ad eccezione dei vestiti che aveva indosso. E in Italia ha trovato ospitalità e partecipazione. Oltre che cibo, alloggio e lavoro. Ha trovato qualcuno disposto a scommettere su di lui o di lei. Racconta inoltre che quando gli esuli cileni si radunano periodicamente è un giorno di festa. Quelli sposati con italiani e italiane esibiscono con fierezza la loro doppia identità. Perché la considerano un valore aggiunto.
Negli anni Settanta ero un’adolescente. L’eco della vicenda cilena aveva fatto prepotentemente irruzione anche in provincia, dove abitavo. A quei coetanei sfortunati che abitavano sull’altra sponda dell’oceano ho potuto offrire solo la mia vicinanza morale, che è rimasta immutata nel tempo.