Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores

Gabriele Salvatores in questo suo ultimo film ci ripropone il tema del viaggio. Da sempre, in letteratura, metafora di un cambiamento interiore generato dall’incontro con l’imprevisto e con l’altro che non ti aspetti. Da questo tipo di esperienza in genere emergi un po’ ammaccato e sicuramente diverso. In quest’ottica il cambiamento è inteso come rimescolamento vitale, in contrapposizione alla stagnazione mortifera di una vita ripetitiva. Il film ci narra la storia di Vincent, adolescente dai tratti marcatamente autistici. Mai come in questo tipo di diagnosi la prudenza è d’obbligo. Perché la galassia Autismo è popolata di individui che possono condividere alcune caratteristiche comportamentali, come ad esempio stereotipie e difficoltà nel rapportarsi con gli altri, ma ciascuno le manifesta a modo proprio. Il che li rende unici, irripetibili e uguali solo a se stessi. Come chiunque altro. Non penso che Salvatores volesse scandagliare l’Autismo, che a tutt’oggi non si sa esattamente cosa sia. O meglio si sa che è tante cose insieme. Forse una predisposizione genetica che, sommata a particolari caratteristiche ambientali, in un determinato individuo può fungere da innesco. In ogni caso, ogni storia è una storia a sé. Compresi gli esordi della malattia. Non credo neppure che fosse nelle intenzioni del regista dare consigli a buon mercato alle famiglie di ragazzi autistici. Diciamo piuttosto che Salvatores ha scelto di narrare una vicenda umana impegnativa, a tratti angosciante, con lucidità e un pizzico di ironia, mantenendo viva la curiosità e aperta la mente. Sempre in punta di piedi e con il massimo rispetto. E paradossalmente, poiché è una storia in cui i buoni sentimenti trionfano, ad alcuni è parsa una bella fiaba, molto lontana dalla realtà. Ma procediamo con ordine. Vincent, il protagonista della vicenda, non ha mai conosciuto il padre naturale. Infatti è cresciuto con una madre molto protettiva, che comincia a dar segni di cedimento; e con il suo compagno che, oltre a garantire loro una vita agiata, ama Vincent come fosse suo figlio. La loro vita scorre tra alti e bassi, finché un giorno Willi, il padre naturale del ragazzo, in procinto di partire per la Dalmazia, passa da Trieste e bussa alla loro porta; deciso a conoscere quel figlio da cui è fuggito prima ancora di vederlo nascere. Willi è un cantante neomelodico, molto gettonato oltreconfine. È squattrinato e umanamente poco affidabile. E tuttavia, senza averlo programmato, riuscirà ad affrontare una tournée avventurosa con Vincent al seguito. Padre e figlio scoprono di essere accomunati da un amore contagioso per la vita, che riesce sempre a sorprenderli. E il viaggio sarà la pietra di inciampo per conoscersi, mettendo a nudo le proprie difficoltà. Perché Vincent, non avendo filtri, amplifica tutte le sue emozioni. Nel bene e nel male. Per questa ragione sa donare tanto ma, di contro, inchioda il padre di fronte alle sue difficoltà di persona, prima ancora che di genitore. I due imparano a convivere tra prove ed errori, scoprendo di volersi un gran bene. Willi, adolescente mai cresciuto, arriva dritto al cuore di Vincent con il suo amore. Tra uno spavento e l’altro, scopre che suo figlio è un’esplosione di energia. E che nella sua modalità stralunata sa farsi amare e amare in modo folle, per l’appunto. Penso che il succo del film stia proprio in questo: l’amore è necessario per crescere. Non per nulla i danni maggiori li causano il disamore e l’amore malato, perché soffocante e ricattatorio.

Scaduto il tempo sospeso del viaggio, la vita ripiomba nel quotidiano. Con alcune novità significative. Vincent scopre di avere una persona in più che gli vuole bene, alla quale è legato da una forte complicità. Willi, che fare il padre non è poi così spaventoso, anche se perfettibile. La mamma che, smarcandosi dall’asservimento al figlio, si dedicherà alla scrittura per la quale mostra un talento non comune. Fiduciosa che Vincent, come ogni altro adolescente, vada aiutato a conquistare spazi maggiori di autonomia



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