“Vendetta tremenda vendetta” ovvero “Le donne al lavoro”

Sebben che siamo donne paura non abbiamo, per amor dei nostri figli in lega ci mettiamo, cantavano con fierezza le mondine vercellesi ai primi del Novecento, rivendicando i loro diritti di lavoratrici e gridando al mondo intero l’orgoglio di appartenere al genere femminile.

Da allora, però, molta acqua sembra essere passata sotto i ponti.

Dice una donna ad una cena tra amici: Noi donne siamo coalizzate, non ci ferma nessuno! E una sua amica le risponde: Diciamola tutta. Quando andiamo d’accordo siamo molto unite, ma se qualcuna ci fa uno sgarbo, siamo in grado di legarcela al dito per l’eternità. In attesa della vendetta.

Lavorare in un ambiente tutto femminile per me è più minaccioso che lavorare in mezzo agli uomini. La concorrenza è spietata: ci sono donne che fingono di essere amiche affettuose, per poi trasformarsi in un batter d’occhio nel peggiore dei tuoi incubi. Ovviamente a parlare è una donna.

Coffee break. Basta un innocente caffè, perché due opposte scuole di pensiero si fronteggino come su un campo di battaglia. Da un lato, le segretarie che inseguono il capo nel corridoio con la tazzina di caffè in mano. Dall’altro, quelle che il caffè se lo bevono loro e che il capo si arrangi, visto che le mani ce le ha anche lui. Il tutto condito da un’ostentazione caricaturale che sconfina nel grottesco.

Le inseguitrici, convinte che tra le loro mansioni lavorative ci sia anche servire il caffè, suscitano il disprezzo delle ribelli che le ritengono responsabili del rifiorire della mentalità maschilista. Già di per sé dura a morire.

Stare al di qua o al di là della barricata ha un forte significato simbolico, perché rimanda ad una precisa scelta di vita e di valori. E questo mobilita alleanze di sangue o inimicizie eterne. Anche sul luogo di lavoro.

Un uomo dice ad un suo collega: Al lavoro gli uomini assomigliano ai cani, le donne alle tigri. Leggi tra le righe: gli uomini si esibiscono in combattimenti rituali, mentre le donne combattono davvero, usando gli artigli. Per cui: Quando due donne litigano, meglio tagliare la corda.

Una storia di invidia. Qualche tempo fa, una nota maison di moda decide di premiare le sue stliste più originali, assegnando loro un bonus. Ovviamente c’è gran fermento: le prescelte si sentono molto lusingate. Ma, ahimè, la fase dell’euforia dura poco. Non passa un mese che cominciano a serpeggiare i primi malumori. Ci danno il contentino per pagarci il meno possibile. In realtà ci sfruttano. Se le vendite sono aumentate, è grazie ai nostri modelli. Altro che generosità! E via di questo passo. Quella che si lamenta più di tutte è una stilista affermata, alla quale proprio non va giù che i proprietari, a tradimento, le abbiano affiancato la loro ultimogenita fresca di studi. Tutto lascia supporre che nel tempo sarà lei a prendere in mano le redini dell’azienda. Posizione cui la stilista ambiva segretamente da anni. Così, non trova di meglio da fare che sobillare le sue giovani colleghe, ignare e sprovvedute.

La scarsa solidarietà delle donne sul luogo di lavoro è un fenomeno più frequente di quanto si possa immaginare. L’incongruenza è che le donne preferiscono non parlarne. Su questo tema, sentito e sofferto, cala una sorta di silenzio omertoso. Anche la letteratura esistente è scarsa. Immaginavo di imbattermi in fiumi di inchiostro e invece scopro che in circolazione esistono pochi libri, difficili da reperire perché non vengono ristampati. Perché? Eppure da numerose testimonianze raccolte emerge che spesso i rapporti tra donne sono così deteriorati e faticosi, da compromettere sia la vita lavorativa che quella personale.

D’altronde la reticenza non è una novità. Con cinquant’anni di ritardo, alcune ex attiviste del movimento femminista degli anni Sessanta hanno di recente confessato la disapprovazione e il marcato risentimento, che serpeggiavano all’interno del gruppo, per quelle donne dalla personalità forte, che sgomitavano per emergere. Sfatando definitivamente il credo che “femminile” è bello per definizione.

Azzardo qualche ipotesi sulla fatica a lavare pubblicamente i panni sporchi.

Ci sono inevitabilmente ragioni di ordine storico. Non dimentichiamoci che le donne lavorano in un mondo pensato dagli uomini per gli uomini, in cui si sono inserite successivamente e con gran difficoltà. La legge sulla parità del lavoro, che afferma: uguali diritti, uguali salari, data solo 1977. È indubbio che le donne per far sentire la propria voce, abbiano dovuto fare massa critica, contraendo un debito di riconoscenza, le une verso le altre, sacro e inviolabile. Tutt’oggi nelle realtà lavorative burocratico-manageriali, in cui stentano ad essere riconosciute e premiate la capacità di ascolto e la progettualità, sopravvivono sacche residuali di maschilismo da cui, nuovamente, le donne si difendono alleandosi.

Da numerose testimonianze femminili, sembra che le donne siano il bersaglio più frequente dell’aggressività femminile. Sono molto severe nel giudicarsi, non si perdonano gli errori, difficilmente usano il beneficio del dubbio in genere accordato anche ad uomini poco affidabili. Ma soprattutto faticano a restare unite in vista di uno scopo comune, superando dissensi di poco conto. Sembra poi esserci poca voglia di far crescere altre donne. Raggiunto il potere, meglio essere un caso raro che appartenere ad una categoria diffusa. Sarà che la coperta per loro è sempre stata troppo corta!

Da questo quadro emerge che le donne sembrano essere sessiste esattamente come molti uomini. Quello che cambia è solo la qualità della loro aggressività. Che esercitano in modo indiretto, con sguardi inceneritori carichi di disprezzo, con ingiurie, canzonature o viceversa con lunghi silenzi di disapprovazione che fanno sentire invisibili. Infatti sembra che lo scopo sia proprio quello di distruggere la posizione dell’altra, il suo diritto di esistere. Guarda caso, il bullismo al femminile ha esattamente queste caratteristiche.

Sembra che le rivalità nascano da invidie o gelosie suscitate dall’avvenenza fisica di una collega, dalla maternità, dalla distribuzione dei favori da parte degli uomini. E siccome le rivalità femminili tendono a mantenere lo status quo, il più delle volte sono sotterranee. Salvo poi esplodere, dopo aver covato a lungo sotto la cenere.

Riconoscere tutto questo e dargli un nome significa compiere il primo passo verso il cambiamento.

Da sempre gli uomini possono esprimere le loro capacità in ogni ambito a loro più congeniale, che spesso non coincide con quello della casa e della famiglia. Al contrario delle donne che per generazioni hanno ricevuto un’unica investitura: esistere in funzione dei bisogni e dei desideri degli altri. Più davano, più ricevevano la conferma di esistere.

Ancora oggi, anche se meno che in passato, alcune sembrano aver cucito addosso il complesso di Cenerentola, che impedisce loro di sfondare il “tetto di cristallo”, cioè di arrivare ad occupare posizioni lavorative di alto livello, che di norma sono di pertinenza maschile. Credo che la causa sia da ricercarsi nella scarsa frequentazione delle stanze dei bottoni, cui in poche sono riuscite ad accedere. Sta di fatto che sono ancora troppe quelle che faticano a farsi largo per timore di essere etichettate come arriviste. Sono invece una minoranza, e fanno notizia, quelle che riconoscono di aver inclinazione per il potere. Il guaio è che, spesso, per ammetterlo a se stesse, devono nobilitarlo, affermando che è un mezzo e non un fine, che serve a nobili scopi e via dicendo. C’è anche il caso di certe donne manager che, per sembrare più credibili (ma a chi?), assumono un atteggiamento fallico sia nell’abbigliamento che nei toni che, oltre a essere caricaturale, paradossalmente imita un’identità maschile incerta. Mentre altre si accontentano delle briciole del potere, ovvero della seduzione dei potenti. Mi sto riferendo alla cosiddetta “donna oggetto”, oggi ribattezzata “donna orizzontale”, che si apparecchia con mise improbabili per strappare sguardi clandestini e possibilmente riceverne in cambio qualcosa.

Che per molte il potere sia un’attitudine da scongiurare, dipende da ragioni che con gli uomini non c’entrano granché, perché proviene dalle donne stesse. Che sono state culturalmente condizionate a metabolizzare poco l’aggressività, concepita solo nella sua veste distruttiva e non come impulso sano e vitale di autoaffermazione.

Per contro, c’è un luogo comune da sfatare: la superiorità morale delle donne, perché per natura miti e propense alla mediazione. Questo è uno stereotipo molto diffuso, oltre che un fardello pesantissimo da portare. Perché le donne, esattamente come gli uomini, hanno tutto il diritto di arrabbiarsi, di essere esplicite ed ambiziose. Diciamo piuttosto che fin da bambine (vale soprattutto per le vecchie generazioni) viene loro insegnato che la rabbia è un sentimento da non esibire perché isola. Così vengono addestrate a non essere dirette, a non emergere, a conformarsi al gruppo, pena l’esclusione e a viaggiare in coppia con l’amica del cuore, anche da adulte. Persino sul luogo di lavoro. Ma se non si sentono libere di dire ciò che pensano e provano, come possono non covare profondi risentimenti con esiti distruttivi per sé e per gli altri?

Dunque è assodato che uomini e donne non sono due antinomie, ma solo persone biologicamente diverse, portatrici di parti maschili e femminili diversamente sviluppate. Da questo punto di osservazione, certi atteggiamenti considerati poco femminili per una donna, come il non mischiare rapporti personali con quelli lavorativi, l’autorevolezza nel dare disposizioni, la severità di giudizio si ricollocano nella loro giusta prospettiva.

Cosa si aspetta, oltre al rispetto e all’ascolto, una donna da un’altra donna sul luogo di lavoro? Che le sia anche amica, madre, sorella? Già, perché molte identificano la colleganza con l’amicizia e il passo successivo è pretendere disponibilità, benevolenza, comprensione e anche intimità. Cosa che può anche capitare in alcune situazioni idilliache. Trovo però questo atteggiamento, all’apparenza innocuo, fortememente manipolatorio. Perché in nome dell’amicizia, tenta di azzerare le ambizioni personali.

Un’ultima considerazione. La dinamica madre-figlia presenta molti aspetti inconsci che influenzano profondamente i rapporti tra donne adulte, rendendoli esclusivi e viscerali. Infatti, a prescindere dall’età, sono molte le donne che inconsciamente continuano a vivere se stesse solo come figlie e le altre come potenziali madri protettive o minacciose. Queste dinamiche spesso gettano la loro ombra anche in ambito professionale.

La relazione materna viene prima di tutte le altre e per questo è di straordinaria importanza. Ma per le femmine lo è doppiamente, perché la madre è anche la loro figura di identificazione. Ciò complica il rapporto. È probabile che una figlia, orfana delle attenzioni materne, sarà alla ricerca costante della madre perfetta. Mentre una madre che non accetta la diversità della figlia, la addestrerà a percepire come tradimento il comportamento di chiunque osi pensarla in maniera diversa.

Bibliografia

Il gusto delle donne di Licia Granello

Donna contro donna di Phyllis Chesler

Ma le donne no di Caterina Soffici

Il nuovo potere delle donne di Ilda Bartoloni

 

A seguire, suddivisa in tre parti, l’intervista sul tema dei conflitti femminili rilasciata a Radio Bella & Monella nell’Ottobre 2012

 

 



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