“La tenerezza” di Gianni Amelio

Gianni Amelio riflette su quante sorprese possa riservare l’animo umano e su quanto sia difficile scandagliarlo. Concludendo che una possibile chiave d’accesso sia il sentimento della tenerezza. Per la commozione dolce e profonda che suscita in noi, consentendoci di guardare il prossimo con più indulgenza. Quando ci capita di provare tenerezza? – sembra chiedersi. Forse quando scopriamo, sorprendendoci, che una persona è capace di un’umanità insospettata. Di gesti affettuosi che irrompono goffamente, sfidando un cuore che il tempo ha indurito come la pietra. Talvolta per dissimulare le emozioni, tal’altra per difendersene. Può capitare, però, che un evento inaspettato sventi l’inganno. Come succede al protagonista del film, Lorenzo, uomo cinico che, ritenendo di bastare a se stesso, sradica dalla sua esistenza le relazioni. Tutte tranne una. Quella col nipotino, che ogni tanto preleva da scuola per “insegnargli la vita”. Curato nell’aspetto e rude nei modi, ha fatto del compromesso la sua cifra esistenziale. Sia nelle scelte lavorative che in quelle sentimentali. È stato un avvocato di non specchiata onestà. Ha sposato una donna che non amava e che ha tradito ripetutamente. Si è negato all’amante di una vita, semplicemente sparendo. E lo stesso ha fatto con i figli. Che ha smesso di amare una volta divenuti grandi, perché convinto di non avere più nulla da insegnar loro. Il tutto, apparentemente senza rimpianti. Sorvolando sul deserto affettivo che si è costruito intorno. Oltre che sul magro bilancio di una vita, che da tempo gli è sfuggita di mano. Poi un bel giorno, sul pianerottolo di casa, si imbatte in Michela, la nuova vicina. Giovane, ciarliera, disarmante nella sua sprovvedutezza. Che si offre di aiutarlo, mentre arranca sulle scale con enormi borse della spesa. E lui, che non ricorda più cosa sia la gentilezza – non praticandola da molto – ha un motto di stizza. Perché rubrica il gesto della giovane sotto la voce “commiserazione”. Va detto che ha appena avuto un infarto. Michela non si scoraggia. Anzi, con la sua semplice spontaneità, gli suggerisce di sorridere di più. Sente che in lui c’è del buono. E inconsapevolmente gli offre una possibilità di riscatto. Fatta di quotidianità, reciprocità, vicinanza. E non solo fisica. Che sorprende prima di tutto Lorenzo, perché paradossalmente proprio un’estranea è riuscita laddove gli altri hanno fallito. Col tempo prende sotto la sua ala protettrice anche il marito di Michela, Fabio, giovane triestino impacciato e spaesato nella Napoli caotica. Che gli confida che da piccolo pagava i compagni di classe perché gli fossero amici. E che non è capace di stare con i suoi figli piccoli, perché non sa come si fa. Percorso da un moto di tenerezza, perché un po’ si riconosce in lui, Lorenzo lo invita a bussare alla sua porta quando ha voglia di parlare. Dalle sue parti si usa così. Comprende le difficoltà di Fabio, che alterna momenti di candore fanciullesco a scoppi d’ira. Come accade quando reagisce in modo spropositato alle insistenze di un “vu cumprà”. Tanto che Lorenzo istintivamente lo abbraccia per proteggerlo dallo sguardo carico di biasimo di chi ha assistito alla scena. Per poi seguirlo con la coda dell’occhio, mentre si fa strada tra la folla per scovare l’uomo e chiedergli scusa. Pieno di rammarico. Senza riuscire a proferire parola.

La mamma di Fabio è una signora composta, che descrive suo figlio con lucidità distaccata. Basta la tenerezza di una madre per preservare il proprio figlio da gesti scellerati? Chi può dirlo. Nel dubbio, meglio non lesinare – sembra suggerirci il regista.



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